(Rassegna Stampa). Da qualche tempo le regioni italiane, superata l’idea del federalismo lanciata oltre un ventennio fa dalla Lega, puntano ad ottenere maggiori autonomie sulla scorta di quanto prevede l’art. 116 della Costituzione che, per l’appunto, individua la ripartizione delle materie fra Stato e Regioni. La stura a queste aspettative di autonomia è stata data dall’esito felice per i proponenti dei referendum della Lombardia e del Veneto, che, come è noto, hanno raccolto un notevole consenso in relazione all’ampliamento delle materie da attribuire alla competenza esclusiva di quelle regioni.
Il nostro ordinamento prevede per le regioni la possibilità alternativa di ricorrere al referendum oppure di definire attraverso un percorso legislativo e amministrativo un’intesa con lo Stato che porti all’ampliamento dell’autonomia regionale attribuendo competenza su materie specifiche. La Regione Umbria, grazie anche al certosino ed esperto lavoro dell’assessore Antonio Bartolini, ha optato per questa seconda via e intrapreso un percorso finalizzato a far coincidere la volontà dello Stato con quella dell’Umbria per l’attribuzione di nuove competenze. Su questa strada tutt’altro che semplice vi è stata una convergenza di intenti tra l’Umbria e le Marche tant’è che le due regioni hanno stretto un patto di collaborazione finalizzato a ottenere una sinergia operativa perché si possa giungere a tale obiettivo.
Del resto, questa cooperazione fra le due regioni limitrofe, talora estesa anche alla Toscana, non è nuova e da più parti è stata letta come un preludio a una riforma più ampia auspicata da tempo e indirizzata verso la realizzazione di una macroregione dell’Italia di mezzo che, quindi, comporti il superamento dell’attuale regionalismo. Il tema delle autonomie da ampliare e da attribuire alle singole regioni va, tuttavia, connesso alle dimensioni di queste ultime e rappresenta un punto di criticità da valutare in via prioritaria. Vi è, infatti, un binomio inscindibile fra allargamento delle materie di competenza delle Regioni e aumento dei costi. Si è soliti dire che la democrazia ha un prezzo e spesso questo prezzo è molto alto. E fin troppo facilmente intuibile che più è piccola una regione e più il costo dell’ampliamento dell’autonomia prò capite sarà maggiore.
È chiaro che se una determinata materia ha un onere di gestione pari a cento, in Lombardia con i suoi circa 5 milioni di abitanti ricadrà in un certo costo procapite; se a gestirla è invece l’Umbria con i suoi 850 mila abitanti, ovviamente il carico prò capite aumenterà considerevolmente. Proprio quello dell’innalzamento dei costi (leggasi tasse) connesso all’ampliamento delle competenze degli enti decentrati costituisce un punto nevralgico su cui riflettere molto. La storia dell’ultimo trentennio ha dimostrato come in materia di pressione fiscale in capo ai cittadini vi sia stato un innalzamento abnorme man mano che gli enti decentrati hanno assunto autonomia e competenze. Il circolo vizioso che si è creato è che lo Stato cede più o meno malvolentieri ambiti delle proprie materie, ma non riduce mai la tassazione a proprio favore.
Di contro, regioni e altri enti locali, ricevendo nuove competenze senza adeguati stanziamenti dal centro, si vedono costretti a individuare nuove tasse o a incrementare le esistenti. In questo balletto a rimetterci è il cittadino che vede progressivamente aumentare la pressione fiscale che ha poi come ulteriore effetto quello di alimentare l’evasione, interpretata da alcuni come una sorta di legittima difesa: ben venga, quindi, una discussione ricca e articolata sulle possibili nuove autonomie delle regioni, ma prima di assumere scelte che solo a prima vista potrebbero apparire come un aumento del grado di democrazia, si valuti molto attentamente ogni effetto collaterale a cominciare da quello dei costi. La democrazia è un valore altissimo, ma deve essere contemperata con il benessere materiale dei cittadini che attualmente è gravemente compromesso da una pressione fiscale che ha superato ogni limite di tollerabilità.