Il Teatro Povero di Monticchiello per molti di noi, una generazione che nata da queste parti, ha pensato e provato a cambiare lo stato delle cose, con scarsa fortuna, forse anche per capacità ridotte e con diversi gradi di responsabilità, è una sorta di rito personale e collettivo.
Nelle sue cinquantuno edizioni, di cui ne abbiamo perse quelle che stanno nel palmo di una mano, questo “autodramma” ci ha accompagnato mettendo sulla scena la nostra vita, nella sua evoluzione, con tutti i problemi, le speranze, i progetti, le vittorie e le sconfitte che ci hanno accompagnati. Dalla fine degli anni sessanta ad oggi.
Un rito nostro, un cammino nostro, generazionale, politico, geografico. Si anche geografico, perché credo che sia più complicato capire le storie che vanno in scena nella piazza di Monticchiello, se le radici non sono fra queste colline, fra queste terre che sanno ancora di mezzadria, in queste terre dove il “si “ suona un tono particolare, in queste terre fatte di centinaia di campanili, di chiese, di piazze, di vicoli stretti, di tante salite e tante discese, di viti e di ulivi, di cipressi e di greppate riarse. Di fresche serate.
Quest’anno il tema era il “mal comune” o il “bene comune” se lo si rovescia. Il tema attuale dei piccoli comuni e del loro futuro. Dei rischi e delle possibilità che ci sono nelle proposte che vengono fatte per metterli insieme. Dei dubbi, delle identità che mettono in discussione, degli insegnamenti che si possono trarre dal passato.
E il finale, come sempre, è aperto, lasciato alla riflessione dello spettatore o meglio alla capacità di intervento, nella storia grande e piccola, della comunità e del singolo cittadino.
C’è tempo fino al 14 agosto per vederlo. Fateci un salto. E mentre lo fate guardatevi attorno. Non sarà tempo sprecato.
Gianni Fanfano