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La “questione dell’Italia Centrale” come questione europea e le opportunità del Recovery Plan

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( da Aur di Luca Diotallevi. Università Roma Tre)

È il momento di proporre la “questione dell’Italia Centrale” come questione europea, come questione di rilievo geopolitico globale.

  1. La domanda da cui conviene partire suona così: quale sarà il confine meridionale della Unione Europea che riparte? Detto altrimenti: l’Europa che riparte (e l’Italia che riparte) si fermerà al Po o comprenderà tutto lo “stivale”?
    Se ci si accontenta della prima risposta, non serve affannarsi. Le “cose” vanno già da sole in quella direzione. L’area padana (più precisamente il poligono Milano-Bergamo-Brescia-Verona-Treviso-Modena-Parma-Piacenza-Pavia-Milano) ha già quello che le serve ed ha pure la forza per attirare quanto ancora non ha. Continuerà a stringere i denti e ce la farà. Al nuovo Nord probabilmente sarà in grado di rimanere unito il corridoio adriatico: da Pesaro a Lecce.
    Se invece si sceglie la seconda opzione(portare tutta l’Italia dentro la ripartenza europea), allora si tratta di fare i conti non più solo con la “questione meridionale”, ma, e prima ancora, con la desertificazione economica, demografica, culturale ed istituzionale che da alcuni decenni si sta allargando nell’area centrale del Paese (della crisi in cui versa l’Italia Centrale le molteplici difficoltà dell’area romana sono solo un aspetto, e forse neppure il più grave).
    L’eventuale collasso dell’”Italia Centrale” sposterebbe ancora più a Nord il baricentro della UE assecondando una inerzia storica secolare, proprio una di quelle che negli anni ’50 il progetto europeo di De Gasperi, Schuman, Adenauer e Monnet intendeva contrastare.
  2. Uno dei grandi processi che negli ultimi quaranta anni ha profondamente mutato il volto dell’Italia non ha ottenuto la dovuta attenzione. Certamente si è osservato e discusso di un Nord che reinventava se stesso, anche spostandosi verso est rispetto all’ormai tramontato “triangolo industriale” (Torino-Genova-Milano). Certamente si è osservato e discusso di un Sud che andava perdendo sempre più contatto con il resto del Paese. Al contrario, non si è fatta pressoché alcuna attenzione né si è discusso della scomparsa del “NEC” (“NordEst-Centro”): quel diffuso tessuto compatto di culture-imprese-partiti che agganciava molto Centro-Italia al Nord Est che stava accelerando. Sicché, senza si desse l’allarme, il “NEC” ha perso la “C” del Centro. Ad una benemerita stagione di analisi come quelle di Carlo Trigilia ed Arnaldo Bagnasco e di tante ricerche (del Censis ad esempio) non fatto seguito una nuova stagione di studi dedicata a quanto stava avvenendo e soprattutto al decelerare del Centro Italia.
    Di fronte a problemi di questa portata ed a processi di questa durata le grandi domande convergono: cosa fare? Quale visione adottare? Chi può farlo? Da dove partire? Per nessuna di essa può funzionare una risposta non connessa alle risposte adeguate alle altre domande. La visione da assumere, l’attore potenzialmente propulsivo, l’agenda da adottare, non si possono prendere e ricombinare a caso. Siamo di fronte a domande che esigono di essere inquadrate in una prospettiva. E così siamo “al dunque”.
  3. La forza del nuovo Nord, come quella della direttrice adriatica, non sono le Regioni, ma le città. Nelle città è imperniata la trama dell’associazionismo che custodisce sia interessi che memorie. Il successo di amministrazioni regionali come quelle di Zaia (Veneto) e di Bonaccini (Emilia-Romagna) dipende anche dall’aver ben compreso il ruolo primario delle città. Persino Milano non sarebbe Milano senza le altre città (lombarde e non solo) con cui coopera anche competendo.
    Fermo restando il peso e le potenzialità di Roma, il futuro dell’Italia Centrale passa in primo luogo per la adozione di una visione che inverte il rapporto di forza attuale tra le Amministrazioni Regionali e la rete, forte e fitta, delle città medie di quest’area. Questa rete non va inventata, esiste. L’Istat la propone ogni volta che descrive i flussi quotidiani di cose e persone o la geografia dei “sistemi locali del lavoro”. Questa rete non ricalca i confini delle Regioni, ma le connessioni tra le città.
    Il ribaltamento di visione comincia da un modo diverso delle città dell’Italia Centrale di guardare se stesse. Non più “sportelli” di poteri lontani (disattenti, ma più spesso impotenti). Bensì, le città, baricentro di una poliarchia dalla governance multi centermulti level.
  4. Finché si è ancora in tempo, nell’Italia Centrale va fermato l’allargarsi del “deserto” cominciando (non certo limitandosi) a migliorare i collegamenti tra le “oasi” che ancora ci sono: innanzitutto con l’alta velocità di rete ferroviaria e con una più avanzata infrastruttura digitale. Nell’Italia Centrale c’è una gigantesca “X”, non da inventare, ma da ricalcare seguendo i movimenti delle imprese e di chi studia e lavora. Di questa “X” l’asse già nitido, da Civitavecchia-Roma ad Ancona (via Orte-Terni-Foligno) incrocia l’asse ancora abbozzato, da Firenze a Pescara (via Arezzo-Terni-Rieti-Avezzano). Una “X” di ferro che raddoppia una “X” di gomma (A1 ed E45, cui manca solo qualche segmento sulla tratta Orte-Terni-Rieti-Pescara). Se l’area metropolitana romana e quella Prato-Firenze-Livorno saranno più intensamente connesse alla direttrice adriatica ed al Nord, che si reinventa e riparte, l’avanzata del deserto potrà essere fermata e l’Italia Centrale potrà disporre di una realistica alternativa ad un futuro di area interna abbandonata. I risultati positivi ottenuti con la Foligno-Civitanova sono indicativi e possono moltiplicarsi esponenzialmente.
    I sindaci delle città medie dell’Italia centrale e Draghi, Presidente del Consiglio e leadereuropeo, dispongono oggi di una arena, il cantiere del Recovery Plan, in cui imporre la centralità della “questione Italia Centrale” e conferirle lo spazio dovuto. Dal canto loro, se adottano questa stessa visione, le amministrazioni regionali, a partire da quella umbra, possono trovarvi una mission.
    Se con i soldi europei non vogliamo finanziare quello che ci era rimasto nel fondo del cassetto, ma vogliamo comprare un po’ di futuro, con la “questione dell’Italia Centrale” andiamo sul sicuro.